La via rock, quella giusta…Dixie Blur recensione album
: è riuscito a prendere il suono classico del Laurel Canyon degli anni ’70 e a rivitalizzarlo con un serie di album e produzioni pressoché perfette. Dopo avere passato due anni on the road come spalla di Roger Waters nell’Us+Them Tour (oltre alla chitarra, interpretava le parti vocali di Gilmour nelle canzoni dei Pink Floyd), torna a tempo pieno alla carriera solista, mai abbandonata del tutto. Dixie Blur recensione album
Cambio di rotta
Qui le coordinate, invece, cambiano profondamente, nell’attitudine ma non nella sostanza. Su suggerimento, pare, di Steve Earle, uno che se ne intende di cantautorato e tradizione americana, Wilson ha lasciato la Los Angeles dove si è insediato quindici anni fa per raggiungere Nashville e registrare con i migliori turnisti sulla piazza. Ne salta fuori una band di professionisti navigati, musicisti per cui il sound americano è direttamente impresso nel DNA: Mark O’Connor (violino), Kenny Vaughan (chitarra), Dennis Crouch (basso), Russ Pahl (pedal steel), Jim Hoke (harmonica e fiati), Jon Radford (batteria) e Drew Erickson (tastiere).
In aggiunta, la produzione è divisa metà con Pat Sansone dei Wilco, già al lavoro sugli archi di Fanfare. Anche il metodo, oltre che la dimensione collettiva, è stravolto. Si passa dai tempi lunghi con cui Wilson ha costruito i brani e le registrazioni dei primi tre dischi, a un lavoro intensivo: sei giorni in presa diretta al Cowboy Jack Clement’s Sound Emporium Studio, nessuna sovraincisione a posteriori, buona la prima o quasi.
Un gusto country “leggendario”
Ha quasi il sapore del ritorno a casa, dalla California al Tennessee, confinante con quella Carolina del Nord dove Wilson è nato e cresciuto. Bluegrass, country e Americana si fondono con la vena malinconica di questi quattordici brani, spesso appoggiati su ritmi larghi, a cui la band sa dare una tridimensionalità che forse era un po’ mancata ai primi dischi del musicista (andando a cercare il pelo nell’uovo). I quattordici brani che ne risultano sono i più coesi che Wilson abbia mai scritto, da incastonare in una ideale collana dei classici a stelle e strisce (Dylan, Neil Young, Crosby, ma anche Cat Stevens, Wilco e Jackson Browne), ma senza il timore di guardare anche altrove. Si assimilano così il gusto per un le suite pastorali di pinkfloydiana memoria (O’ Girl), un intimismo di marca Elliot Smith (Fun for the Masses), ascendenze europee (centro-europee) per gli arrangiamenti (Pirate), atmosfere sospese che riprendono i riverberi Laurel Canyon (Riding the Blinds). E c’è lo spazio per la California che parla spagnolo in El Camino Real, che evoca il percorso delle missioni messicane che parte dalla Baja California e arriva fino alla Bay Area e oltre.
Il risultato è ancora una volta stupendo: grande scrittura, arrangiamenti perfetti. Più che un disco vintage, “Dixie blur” è fuori dal tempo, come la grande musica.
“Dixie Blur”
Dixie Blur è personalissimo e universale, complesso eppure semplice, apparentemente diretto, ma capace di sorprendere anche al decimo ascolto. Che Wilson avesse qualcosa da dire lo avevamo già capito, ora ha avuto anche il coraggio di farsi aiutare a dirlo meglio, come non lo aveva mai detto: canzoni destinate a restare a lungo in circolo nelle vene dell’America e nelle nostre.
Just for Love
’69 Corvette
New Home
So Alive
In Heaven Making Love
Oh Girl
Pirate
Enemies
Fun For The Masses,
Platform
Riding The Blinds
El Camino Real
Golden Apples,
Korean Tea
Dixie Blur recensione album
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