“Psichedelico”Dream Syndicate album recensione
La parabola dei Dream Syndicate è una delle più belle del rock americano classico degli ultimi anni, e questo album, il terzo in tre anni, ce lo fa amare ancora di più. Una prova completamente fuori dal tempo, un trip psichedelico.Dream Syndicate album recensione
Riassunto delle puntate precedenti: un passato di culto negli anni ’80 come alfieri del rock psichedelico californiano (il “paisley underground”), un disco capolavoro (“The day of wine and roses” 1982), un leader che dallo scioglimento della band (1989) si costruisce una fama solida come artista di culto del rock americano (“cultartist”, con una certa ironia, è anche il suo nickname su Instagram). Nel 2012 riforma la band per i 30 anni di “The days of wine and roses”. Tutto normale, o quasi: la reunion celebrativa è un classico.
Solo che nel 2017 e 2019 pubblicano due album “How did I find myself here?” e “These times”: un raro caso di una band la cui produzione “nuova” non è nostalgica ma al livello di quella originale. Merito della scrittura di Wynn e di una formazione che ha una sua identità precisa e solida: i membri originali (il bassista Mark Walton, il batterista Dennis Duck) e le nuove aggiunte (il chitarrista Jason Victor che non fa rimpiangere Karl Precoda e Paul B. Cutler e Chris Cacavas, tastierista e amico/collaboratore di lunga data, innesto perfetto).
The universe inside
A neanche un anno da “These times” ecco “The universe inside”. Se i dischi precedenti univano la forma canzone con brani più sperimentali che già facevano parte del patrimonio del gruppo “How did I find myself here?” era una nuova “John Coltrane stereo blues”), qua la bilancia si sposta decisamente su questo versante. La forma canzone quasi non c’è, ci sono 5 brani per un’ora di musica, una lunga suite che arriva da unica sessione notturna da cui sono usciti 80 minuti di musica. Wynn dice di averli editati con un processo non dissimile a quello di “Bitches brew”, il capolavoro di Miles Davis in cui il produttore Theo Macero assemblò le parti migliori di sessioni improvvisate.
Il risultato è psichedelico, nel miglior senso del termine: non aspettatevi qualcosa di tradizionale, ma immaginatevi i Grateful Dead, i Crazy Horse di Neil Young, i Velvet Underground frullati assieme, con l’acidità tutta newyorchese che prende quasi sempre il sopravvento sulla rilassatezza californiana: Wynn, losangeleno trapiantato a New York, ha sempre unito questi due mondi e questa è il suo tentativo letteralmente più selvaggio. Aggiungete al mix il sitar di Stephen McCarthy (The Long Ryders, altra band storica del Paisley Underground) e il sax di Marcus Tenney, e forse avrete un’idea. O forse no.
Per intenditori
I 20 minuti iniziale di “The regulator” sono contemporaneamente i più ostici e i più affascinanti. “The Longing”, che arriva subito dopo, è quanto di più vicino c’è alla classica rock song, anche nei suoi 7 minuti (il brano più corto del disco…). “A propos of nothing” è più rilassata e californiana; “Dusting of the rust” decisamente più ritmica e nervosa, con basso pulsante e fiati. “The slowest rendition” torna alla psichedelia, con un finale corale con voce e sax che si intrecciano.
Un disco comtemporaneamente stupendo e difficile, che fa amare ancora di più Steve Wynn e i DS: “The universe inside” è un trip che mostra la passione per la musica ad altri appassionati per la musica. Forse ciò di cui si ha bisogno in questo periodo: musica astratta, per astrarci da un mondo che sembra impazzito.
Dream Syndicate album recensione
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