Gli Escape to the Roof, band anonima nel panorama italiano, pronta a rivoluzionare la musica nel nostro paese, ha pubblicato il primo album omonimo. Per l’occasione noi di Musicaccia li abbiamo intervistati!
Come mai in un’epoca in cui essere mainstream è tutto avete scelto l’anonimato?
Volevamo che a parlare fosse solo l’opera d’arte, e visti i tempi che viviamo, ci è sembrata l’unica cosa rimasta da fare come atto rivoluzionario, prototipo di nuova sedizione in cerca di una vera e propria nuova riabilitazione culturale del gesto artistico tout court, e, attraverso l’opera, una reale riabilitazione del ruolo dell’artista, dell’uomo, e del cittadino nel senso più greco del termine. L’opera d’arte dovrebbe essere l’unica cosa che conta di un qualunque artista, il resto sono dettagli abbastanza trascurabili. Escape to the roof
Dove siamo nati, dove siamo cresciuti, cosa facciamo per sbarcare il lunario, se abbiamo mille amanti o uno stuolo di figli illegittimi sparsi per il mondo, è davvero questo che interessa al mainstream? Forse sì, ma cosa ha a che fare col gesto artistico? Se questo doveva servire per fare parte del mainstream, allora, consapevolmente, siamo contenti così. Noi volevamo semplicemente sparare il nostro pensiero urlato verso l’universo, come il disco d’oro che viaggia a bordo della sonda Voyager, in cerca di qualcuno che volesse accoglierlo e decifrarlo. Quindi, quando ci è venuta in mente l’idea di restare anonimi, ci è sembrata la cosa più naturale del mondo, un gesto da urgenza interiore, che consegna alle scene la nostra band la cui opera conserva una dignità artistica perfettamente intatta, sebbene possa sembrare un autogoal nel secolo della magnificazione celebrativa dell’immagine.
Inoltre, era l’unica posizione da prendere per fugare, in modo definitivo, gli eterni dubbi dell’artista sulla propria opera: nessun compromesso, nessuna ricerca di consensi, l’opera è lì, ed è esattamente come la vedete, e ognuno può farci quello che vuole, è consegnata per sempre alle cronache.
Il vostro album è rock o meglio alternative rock, a chi vi siete ispirati? Come mai avete optato per questo genere? Cos’è il rock per voi?
Ho sempre avuto non poche difficoltà a incasellare una qualunque opera d’arte dentro un contenitore di genere, e la musica non fa nessuna eccezione. Non ho mai conosciuto nessun artista che sia riuscito a definirsi dentro un genere. Il nostro album è rock perché la nostra vocazione è rock; è alternative perché crediamo fortemente nelle commistioni e in un certo tipo d’innovazione che pesca anche da altre forme di espressione, soprattutto il teatro.
Però tutto questo è molto riduttivo: siamo il risultato di tutto ciò che abbiamo letto, ascoltato, studiato, eseguito, ripetuto a pappagallo senza capirne il senso profondo, e anche paradossalmente di tutto ciò che abbiamo indiscutibilmente detestato. Il bombardamento mediatico cui siamo stati sottoposti dall’età di tre anni in poi ha lasciato dei segni tangibili in ogni cosa che pensiamo e diciamo, e soprattutto come la pensiamo e la diciamo. È difficile risalire al perché primordiale di processi che provengono da lontano, e che hanno milioni di ramificazioni, miliardi di digressioni, e chissà quante contraddizioni. Personalmente, quando ho cominciato a suonare i primi strumenti musicali, gli eroi dell’olimpo erano gli dei del rock, e noi volevamo essere come loro perché erano dei figacci incredibili e dei musicisti e performers straordinari. Escape to the roof
Certo, non l’abbiamo vissuta in prima linea, siamo nati molto dopo, ma l’eco di quella grandezza ha valicato i decenni ed è arrivata a noi ancora molto forte. Perciò, non abbiamo scelto questo genere come se si potesse scegliere dal catalogo di un’agenzia di show business, è il passo epico che avevano quegli dei che ci ha stregato. È il rock che ha scelto noi (ecco la frase a effetto, magari col controluce che fa sempre la sua porca figura). No dai, cercando di non scadere nella cattiva retorica, possiamo provare a fare la psicoanalisi al pidocchio, ma rischiamo di prenderci troppo sul serio. Per me è rock quando accendo l’ampli e faccio partire la chitarra, il suono feroce arriva ai coni del cabinet che muovono talmente tanta aria da scompigliarmi i capelli. Quello che succede dopo è un mistero. Di più non so dire.
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Il vostro album parla della complessità dell’essere umano. Che temi in particolare affrontate?
L’uomo è sempre al centro, tutto intorno è una realtà pre-distopica, che fatica a capire, a seguire, in cui è sempre più complicato ambientarsi. È un uomo fondamentalmente poco incline a comprendere l’esasperazione sistemica di ogni cosa: qualunque tema è portato all’esasperazione massima, urlato tra lacrime di rabbia cieca. È tramontata per sempre l’era del dibattito, anche acceso. Se non urli con gli occhi iniettati di sangue, il tuo argomentare non è neanche preso in considerazione.
L’uomo che raccontiamo è un osservatore di tutti questi meccanismi, prova ad analizzarli, ma non riesce ad ambientarsi. Una realtà che schiaccia, appiattisce e uniforma. Una realtà suburbana e subculturale claustrofobica, in cui manca l’aria, quella fresca. Un disadattato? Sì, chi non lo è? Io faccio fatica ad adattarmi all’inesorabile crollo sistemico dei valori in cui abbiamo creduto, e a cui abbiamo giurato fedeltà sin da bambini. Il disco contiene un concept, anche se l’ascoltatore deve fare la sua parte per mettere insieme i tasselli. Escape to the roof
Il filo conduttore è volutamente flebile, cifra stilistica da poetica ermetica e/o criptica alla quale sono molto affezionato, anche se molti continuano a storcermi il naso. Concetto bellissimo è quello per cui il lettore deve fare la sua parte per incontrare il poeta, il quale semina tracce emotive da seguire, attraverso la scelta di parole, pause, suoni, dinamiche, ecc., affinché si abbia una profonda e completa compenetrazione emozionale della poetica stessa.
Il tentativo compositivo, che si snoda attraverso l’indagine dell’equilibrio di tutti questi elementi, è di natura pittorica impressionista oserei dire. Un quadro tridimensionale in cui il gesto alle volte è solo accennato: un suono, un percorso armonico, una parola che va a recuperare qualcosa dal suo secondo o terzo significato, e che immersa in una determinata frase sia capace di suggerire nuovi accostamenti sintattici o nuovi neologismi. Tutti segni semantici portatori di un’emotività calcolata atta a seminare le tracce da seguire.
Da quale esigenza nasce la scrittura di quest’album? Quali emozioni volevate trasmettere? Che messaggio volevate lanciare?
Lo stimolo originario è arrivato quando un giorno, seduto in giuria delle selezioni regionali di una famosa rassegna nazionale di cui non farò il nome, mi sono reso conto che se la musica suonata con carne e sangue era diventata una parentesi marginale del mercato discografico, e non poteva più contare sulla seduzione esecutiva soprattutto dei giovanissimi, un po’ era anche colpa di chi poteva fare qualcosa per trasmettere la filosofia del rock (quella del rock che non fa prigionieri, quella per cui si deve dare tutto, in certi celeberrimi casi anche la vita), e per un motivo o per un altro, non l’aveva fatto. Mi sono sentito sul banco degli imputati, e per giunta per non aver commesso il fatto.
Non che io sia così tenero di cuore, la vita la prendi come viene, ma avendo avuto questa sensazione, non sono riuscito a ignorarla a lungo. Ecco come si spiega il recupero di un certo modo di fare rock: dita vere, che suonano strumenti veri, collegati ad amplificatori a palla che spaccano i timpani. Siamo cresciuti con quella botta nelle orecchie e quell’eco primordiale ci ha sempre chiamato nelle notti insonni, adesso possiamo a nostra volta farlo risuonare. E mi sento un po’ meglio, non a posto con la coscienza perché ancora molto sento di volere e poter fare, di volere e dover dire, ma adesso che l’urlo è stato liberato, mi sento notevolmente meglio. Non è un passo indietro dettato da nostalgia piagnucolante, ma è una rincorsa lunga, lunghissima, per spiccare un salto ancora più alto, altissimo se possibile. Escape to the roof
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Guardiamo al passato per recuperare ciò che vale la pena non perdere per sempre, ma è il futuro che puntiamo. Emozioni e messaggi si trovano nell’ascolto, ogni parola aggiuntiva da spiegone accademico può risultare addirittura lesiva.
Che risposta vi aspettate dal pubblico?
Questa è una domanda un po’ scomoda. Potrei rispondere come un artista integralista per il quale il pensiero e la risposta del pubblico non sono implicati del gesto artistico. Una volta si diceva che a un artista vero non interessa quello che il pubblico pensa della sua opera, e men che meno quello che pensa dell’artista stesso.
E un po’ è giusto, l’arte non è intrattenimento e l’artista deve mantenere e difendere quella freschezza e integrità del pensiero primordiale. Ma noi abbiamo voluto superare questo concetto, e crediamo fortemente nella funzione complementare del pubblico, che non è incoerente con l’integrità dell’opera disinteressata, anzi la espande oltre i limiti dell’opera stessa, oltre i limiti fisici dell’artista stesso. Escape to the roof
Quindi la risposta del pubblico diventa complementare nella misura in cui decide di fare parte anche lui di quest’opera, trasformandola, come detto, in opera collettiva, attraverso l’interiorizzazione del messaggio dell’opera, la razionalizzazione e la trasfigurazione, tutti processi che possono cambiare lo status, emotivo soprattutto. Uno spettatore dopo la catarsi che un’opera d’arte ti ha permesso di raggiungere è una persona diversa, capace di donare agli altri quello che ha ricevuto: l’opera aperta collettiva.
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Ci saranno dei vostri live? Come unirete l’anonimato ad un’eventuale performance dal vivo?
Sono sicuro che troveremo una soluzione anche a questo. Ci mancano i grandi mezzi finanziari, ma a grandi idee siamo a posto per fortuna. Ci stiamo già lavorando, la cosa difficile è fare convivere grandi idee con poche risorse finanziarie, ma è una sfida che intendiamo accettare con grande entusiasmo, com’è stato finora.
Ovviamente non anticipiamo nulla, perché anche questo farà parte del grande copione che stiamo scrivendo. Sì, ci stiamo divertendo un mondo, lo ammetto con un grande sorriso e con un pizzico di vanitoso orgoglio personale. Tra l’altro in questi giorni saranno online sul nostro canale YouTube i video di una sessione live in studio in cui un po’ di forme si vedono. Abbiamo deciso che era necessario per fugare qualunque dubbio in merito alla reale esistenza di una vera band dietro.
Nessuna trovata pubblicitaria calcolata, l’anonimato ci è assolutamente necessario, e aggiungo che ci faceva letteralmente stare male il pensiero di rilasciare immagini prodotte da servizi fotografici in pose preconfezionate, che fossero pose da duri rocker, o anche con tette e culi al vento, o peggio con sorrisi smaglianti poco credibili cercando di fare i superfighi, i supereroi che scendono da chissà quale olimpo per annunciare la propria buona novella. Al contrario, noi rivendichiamo il diritto di NON essere superfighi, supertelevisivi, supertelegenici ecc. La band è formata da persone vere, dietro cui ci sono carne e sangue, lacrime e sudore.