The Weeknd e il genere “malato”The Weeknd album recensione
C’è sempre una grande aspettativa intorno a ogni nuovo disco di The Weeknd, il nome che si cela dietro al progetto musicale di Abel Testafye. Del resto è innegabile che, grazie ai suoi primi mixtape ed ep, l’artista canadese di origine etiope abbia creato un suo genere, un r&b “in minore” dallo spleen un po’ malato, con qualche influenza hiphop e testi lascivi e tossici, ma anche molto glamour.The Weeknd album recensione
Tuttavia nei suoi tre precedenti dischi non è mai riuscito ad avere una continuità e una tenuta, tranne forse qualche singolo di grande successo che però il più delle volte si posizionava molto lontano dal suono originale, vedi “I can’t feel my face” che sembrava una produzione di Quincy Jones per Michael Jackson o “Starboy” in tutto e per tutto una canzone dei Daft Punk.
Le solite “virate” di The Weeknd
Dai singoli che hanno preceduto questo suo quarto lavoro “After hours” era parsa chiara una virata al suono anni 80 rivisitato con quell’estetica simile a ciò che aveva fatto nel cinema e nella musica Nicholas Winding Refn: “Blinding Lights” è un gioiellino di synthpop, una sorta di nuova release della celebre “Take on me” degli A-ha. Si pensava quindi che il disco seguisse questa scia magari non originalissima, ma ben fatta. E invece no.
Anzi, la prima parte replica la parte più noiosa del repertorio e del suono di The Weeknd, sempre prodotta molto bene, carica di tastiere inquietanti e bassi sinistri (c’è anche lo zampino di Oneohtrix Point Never) e ben due ballate di cui una “Scared to Live” assai banalotta con tanto di rullate à la Phil Collins e interpolazioni di “Your song” di Elton John.
I testi sono sempre quelli di The Weeknd: amori veri finiti male, a cui seguono nottate di droga, sesso con chi capita e molto tempo da solo a ripensare all’infanzia a Toronto e all’adolescenza disordinata. Qui si aggiunge anche la piangina per la fama e il successo ottenuto, come quella di avere una casa da 20 milioni di dollari dove non ha mai vissuto.
Forse si, ma anche no…
Nella seconda parte dopo l’altro singolo “Heartless” le cose un po’ cambiano e migliorano. Si sente qui la produzione di Illangelo, Metro Boomin e Oscar Holter, ma anche dell’hitmaker svedese Max Martin. “In your eyes” ha quel beat anni 80 che funziona e si passa volentieri sopra anche a quel terribile sax e il vocoder di “Save your tears” ci ha ricordato quello di Mr Blue Sky degli ELO. La title track, seppur eccessivamente lunga, funziona (c’è anche lo zampino dei suoi vecchi sodali Illangelo e DeHala e addirittura di Mario Winans), peccato che la sua voce alta e angelica è spesso anche monocorde, senza dinamica e stancante all’ascolto.
A differenza dei suoi tre precedenti lavori, qui non c’è nessun featuring di prestigio; qui il buon Abel fa tutto da solo, a parte lo stuolo di produttori di hits. In fondo questo “After hours” è un’altra occasione non completamente riuscita per uscire da quel cliché che il progetto The Weeknd si è costruito intorno.